Il grande quaderno
Introduce Gianluigi Bozza
Il grande quaderno è un romanzo del 1986 scritto da Ágota Kristóf. Con i successivi La prova (1988) e La terza menzogna (1991) diverrà il primo libro della Trilogia della città di K. (Einaudi). Pubblicato in Francia dalle Éditions du Seuil, Le grand cahier costituì uno dei casi letterari più sorprendenti degli anni ottanta. La sconosciuta autrice ungherese, il cui nome sembrava uno scherzo per l’assonanza sfacciata con quello della scrittrice di gialli più famosa, rivelava un temperamento raro in Occidente: duro, capace di guardare alle tragedie con quieta disperazione.
Ágota Kristóf, nata a Csikvánd, in Ungheria, il 30 ottobre 1935 (e morta a Neuchâtel il 27 luglio 2011) fuggì dal paese subito dopo la rivoluzione del 1956, schiacciata dall’intervento militare sovietico. Assieme al marito e ad una figlia di quattro mesi raggiunse a piedi l’Austria, dove un camionista li portò in Svizzera. Per cinque anni lavorò in una fabbrica di orologi, dove faceva minuscoli buchi in una rotella. Pur amando leggere e scrivere fin dall’infanzia, non volle intraprendere studi letterari. Ha raccontato che vicino alla macchina su cui lavorava teneva fogli in cui scriveva i suoi versi, con la cadenza delle macchine che gli dava il ritmo delle poesie.
Allora scriveva in ungherese. Poi subentrò un periodo di non-scrittura. Aveva abbandonato il paese natale e ora, lasciato anche il marito, stava abbandonando la madre lingua, per un francese che non conosceva altrettanto bene. Fu una separazione difficile, ma non poteva continuare, come hanno fatto alcuni altri scrittori, a scrivere in una lingua che non parlava più quotidianamente. Insomma, scrivere in francese è stata una necessità oltre che una sfida.
Iniziò con delle pièces teatrali, cui seguirono delle novelle molto brevi. La scrittrice voleva dire della sua infanzia durante la Seconda guerra mondiale, vissuta col fratello maggiore. Questi brevi schizzi diventarono poi parti del Grande quaderno: la scrittrice e il fratello vennero trasformati in due gemelli e la narrazione abbandonò l’autobiografia.
La scrittura conobbe una forte evoluzione. Quando scriveva in ungherese, ha detto, era melliflua, romantica, “troppo letteraria”. Per Il grande quaderno e gli altri due romanzi della Trilogia ha cercato un nuovo registro linguistico. E che lingua! Non c’è una parola fuori posto, sia a livello dell’architettura della frase, sia a livello puramente lessicale. Il suo rigore va ben oltre l’esigenza estetica. È un rigore che nasce dalla tormentata e appassionata relazione della scrittrice con il francese e al tempo stesso è rivendicazione di una sensibilità linguistica molto peculiare. Nella sua sala operatoria Ágota Kristóf sceglie di abbandonare qualsiasi possibilità di imbellettare la prosa, lasciandola nuda e perfetta; sideralità e chiarezza sopraffine. Non c’è una parola di troppo. Non una di meno. Tutto è misurato con precisione chirurgica.
Nel 2013, dal romanzo, è stato tratto un film, diretto da János Szász (nato a Budapest il 14 marzo 1958), uno dei maggiori registi di cinema e teatro ungheresi della generazione che si è affermata dopo il crollo del regime comunista. Szász al suo attivo aveva diverse realizzazioni, tra cui Woyzeck (1994), una versione in bianco e nero del dramma di Georg Büchner, ambientato nell’Ungheria dell’oggi, e I fratelli Witman (1997), tratto da una novella di Geza Csáth. Il grande quaderno fu candidato dall’Ungheria agli Oscar.
In un paese mai nominato giunge una donna che si reca dalla propria madre portando i suoi due gemelli, adolescenti. Vuole risparmiargli i disagi della guerra, affidandoli alla vecchia, che tutti odiano perché sospettata di aver avvelenato il proprio marito anni prima senza però mai aver scontato alcuna pena. La nonna è una persona sadica e ostile, decisa a piegarli con schiaffi e vessazioni.
La nonna accetta, ma tuttavia sbeffeggiando e maltrattando la figlia, che torna nella “grande città”, ovviamente Budapest. I due gemelli, inseparabili in ogni momento della giornata, crescono tra l’odio della nonna e gli esercizi a cui si sottopongono per non destare in loro la sofferenza della separazione e della situazione in cui si trovano. Resistenti e in attesa di poter riabbracciare i genitori, tengono un diario, regalo del padre, al quale consegnano le scoperte quotidiane e il loro apprendistato alla vita. Fuori dalle pagine del loro Grande quaderno intanto la guerra corrompe uomini, donne, bambini…
Una stanza della lurida casa della nonna è occupata da un ufficiale omosessuale, arruolato nell’esercito straniero che di lì a poco invaderà il paese, al quale fa da inserviente un attendente. I ragazzi vivono esperienze sessuali sia con l’uomo che con la badante del curato, il quale a sua volta veniva ricattato dai ragazzi poiché uso a violentare Labbro Leporino, una ragazza con una deformità fisica che vive della carità altrui.
Risoluti a sopravvivere, gli adolescenti allenano il corpo a sopportare sofferenza e privazioni, autoinfliggendosi torture e digiuno per diventare sempre più forti. Quando gli occupanti tedeschi devono ritirarsi, arrivano i sovietici: i liberatori, però, si mostrano non meno disumani di chi li ha preceduti. Tra le truci esperienze che corrono loro sotto gli occhi vi sarà la morte della madre con la neonata avuta da un ufficiale straniero, dilaniate da una bomba nel giardino della nonna il giorno in cui torna a prendere i ragazzi per portarli con lei, ma anche della morte del padre, creduto disperso, il quale viene fatto camminare, proprio dai figli, su un campo minato alla frontiera del paese, per permettere a uno di loro di scappare oltre confine.
Rispettoso dello spirito del romanzo nondimeno il regista János Szász risparmia allo spettatore alcune sofferenze, consapevole del diverso impatto di alcune scene alla lettura e sullo schermo. Intatta resta invece la propensione alla fatalità dell’autrice, che scivola e penetra le immagini lasciando fuori campo la guerra, evocata soltanto dalle ombre dei cacciabombardieri sui tetti delle case o dai suoni delle esplosioni, tristi echi sonori che impattano la vita di nonna e nipoti. Nipoti frontali e immobili, lo sguardo fisso verso l’orrore e come in un film dell’orrore. Perché i due protagonisti non sono (e non saranno) più bambini come gli altri ma creature marcate dall’odio che ci dicono della guerra e delle trasformazioni che impone. Si rappresenta la perdita dell’innocenza e la distruzione della vita in nome della sopravvivenza.
Ingresso gratuito