Jan Patočka: Socrate a Praga

Interviene Massimo Libardi. Introduce Fernando Orlandi.

Incontri e convegni , Convegno

La fine della seconda guerra apre in Cecoslovacchia un periodo di grandi speranze e di febbrile attività. Jan Patočka, uno dei più importanti filosofi cechi, allievo di Edmund Husserl, partecipa di questo clima: durante l’occupazione tedesca gli era stato vietato l’insegnamento e ora riprende il suo posto in cattedra all'Università Carlo con una serie di lezioni che riguardano Socrate, Platone e Aristotele. Tuttavia già nel 1946 il suo pensiero è circondato dal sospetto. Confessa a un corrispondente di passare “giorni abbastanza scuri. Pensate che sono accusato [...] di esistenzialismo. [...] Pare che avremo anche noi la nostra disputa sull'esistenzialismo [...], solo che si tratta di una disputa senza filosofia e senza filosofi”.

Dopo l’allontanamento dall’università in seguito all’instaurazione del regime comunista l’insegnamento pubblico sarà sostituto da seminari privati e dal lavoro all’Istituto T. M. Masaryk (fino alla sua chiusura nel 1954). Nel 1968, con l’avvento al potere di Alexander Dubček l’Istituto viene riaperto e Patočka è chiamato a dirigerlo – ma fu una breve parentesi. Dopo l’invasione sovietica del successivo agosto seguì un breve interludio e poi prese il via la cosiddetta “normalizzazione” – passo dopo passo l’intera società venne soffocata, avvolta da una cappa repressiva, che non colpì solo il dissenso politico, ma anche ogni forma di espressione culturale che non si uniformava ai rigidi canoni ideologici del regime. Se noi siamo portati a identificare il dissenso con l’area di opposizione politica ai regimi comunisti, questo in realtà copriva una galassia più vasta che riguardava anche la cultura giovanile, i giovani operai, gli artisti e gli scrittori che non si riconoscevano nei rigidi dettami del realismo socialista. I firmatari di Charta '77, il più importante movimento di dissenso ceco, erano sì cattolici, comunisti “riformisti” espulsi dopo l’invasione, senza partito, intellettuali, ma anche giovani operai, marginali, studenti, artisti e musicisti che avevano dato vita all’underground ceco.

“Alla fine degli anni sessanta – racconta Havel in un dialogo con Lou Reed - qui ci fu un’ondata di musica rock. Dopo l’invasione sovietica del ‘68, la maggior parte dei gruppi si sciolse o cominciò a suonare musica d’altro genere, poiché la buona musica rock era stata messa al bando. Ci fu un gruppo che resistette, che non cambiò nome, che non si trasformò. Il suo nome era Plastic People of the Universe. E fu di là che si originò un intero movimento sotterraneo durante i bui anni ‘70 e ‘80”.

Il gruppo, formatosi nel 1968 e attivo fino ai giorni nostri con un’interruzione di dieci anni tra il 1988 e il 1997, prende il nome da una canzone di Frank Zappa e all’inizio suona pezzi dei Doors, di Zappa e dei Velvet Underground. Per questa ragione Havel può affermare “che la musica, la musica underground, in particolare il disco di un gruppo chiamato Velvet Underground, ebbe una parte significativa nell’evoluzione del nostro Paese, e non credo che molti, negli Stati Uniti, se ne siano accorti”.

Nel corso del 1976 i membri dei The Plastic People of the Universe e di un altro gruppo musicale, i DG 307 (vale a dire la sigla che indica la diagnosi medica di instabilità mentale), colpevoli di suonare musica rock, di avere molti fan tra i giovani sono accusati di essere “teppisti”, “drogati”, “alcolizzati” e le loro canzoni definite “volgari”, “disgustose” e “pornografiche”.

Dopo la loro esibizione al Primo festival di musica della seconda cultura, ovvero la cultura non ufficiale, che respingeva totalmente quella del regime, allo stesso modo della Beat generation statunitense, alcuni di loro vengono arrestati. Havel è l’anima organizzatrice della campagna per i Plastic People: vengono indirizzate lettere aperte al capo del partito e presidente della Cecoslovacchia Gustáv Husák e poi viene inviata e resa pubblica una lettera aperta allo scrittore tedesco e Premio Nobel Heinrich Böll, affinché intervenga presso le autorità cecoslovacche: lo stato totalitario è sorpreso dal gesto imprevisto e contrattacca dapprima diffamando la petizione e in un secondo momento perseguitando i singoli firmatari.

La gente presente in massa al processo prefigura già in sostanza Charta ‘77, anche se il movimento uscì allo scoperto solo il 6 gennaio 1977, quando viene diffuso il primo documento ufficiale che esponeva le ragioni dell'iniziativa e esigeva il rispetto da parte delle autorità cecoslovacche degli accordi internazionali sottoscritti a Helsinki nel 1975 anche dall’URSS e dai paesi del blocco socialista e, ovviamente, dalla Cecoslovacchia. Jiři Hajek, Václav Havel e Jan Patočka sono i primi tre “portavoce” di Charta ‘77, ma dei tre è stato certamente Patočka a porre al centro la “questione morale” e a dare la propria impronta al movimento.

Per il filosofo ceco l’aspetto fondamentale di Charta ‘77 è quello etico: l’importante è che, dopo anni di rassegnazione, “la gente tornasse a sapere che esistono cose per cui mette conto anche soffrire. Che le cose per cui eventualmente si soffre sono quelle per cui vale la pena di vivere”. Patočka collega questo intento alle riflessioni sul tema del sacrificio che lo aveva occupato gli ultimi anni, tema connesso a quello della “scossa” o dello “scuotimento”, cioè al modo in cui gli uomini che abitano un mondo in autentico, completamente dominato dalla tecnica – di cui anche il totalitarismo comunista è una manifestazione – possano accedere ad un rapporto con la verità, “vivere nella verità”.

Con una terminologia che risente fortemente del linguaggio di Martin Heidegger, Patočka sostiene che la modalità del sacrificio può dare accesso ad una diversa forma dello svelamento: “nel sacrificio ‘c’è’ l’essere: l’essere si ‘dà’ a noi, non più nel nascondimento, ma esplicitamente”. Il sacrificio autentico è quello che consiste nello stabilire una relazione con ciò che non è una cosa, un ente: “in un senso essenziale, è un sacrificio per niente, se per ‘niente’ s’intenda ciò che non è un ente”. Questo aprirsi a qualcosa che non è un ente, implica una radicale trasformazione della comprensione dell’ente che, a sua volta, si fa esigenza di conquistare la pienezza della propria umanità, di tendere verso ciò che è più umano. Quando Patočka sviluppa queste riflessioni sul sacrificio, ha ben presente il rischio che il suo impegno per Charta ‘77 comporta.

Dall’uscita del primo documento e poi dei successivi di Charta ’77 è un susseguirsi di interrogatori e di vessazioni. Contemporaneamente il movimento vive di una ampia notorietà internazionale: così il ministro degli esteri olandese Max van der Stoel in visita Praga, deviando dal programma ufficiale, invita Patočka a un colloquio per informarsi sulle finalità del movimento. Già la sera stessa a notte fonda la StB, la polizia segreta, va a prelevarlo a casa; ma Patočka non apre la porta: è terribilmente stanco e non si sente bene. Il mattino successivo viene portato al commissariato per un interrogatorio che dura quasi dieci ore da cui ritorna debilitato e in preda ad una crisi cardiaca – probabilmente causata della brutalità stessa dell’interrogatorio – per cui il medico ne prescrive il ricovero. Ospedalizzato,  rapidamente le sue condizioni peggiorano e, dopo tre giorni di coma, nel pomeriggio del 13 marzo muore. È la prima vittima della nuova ondata repressiva.

Tutti gli esponenti più in vista del movimento sono preventivamente arrestati affinché non partecipino ai funerali. I colleghi stranieri di Patočka, fra cui il filosofo tedesco Walter Biemel, sono espulsi; a familiari e amici le autorità frappongono ogni sorta di ostacolo, dalla mancata concessione di permessi di circolazione al ritardo nella stampa degli annunci mortuari e al divieto di vendita di fiori e corone in prossimità del cimitero. Ma a ricordare quello che venne definito “il Socrate di Praga” accorsero più di 1200 persone.   

Massimo Libardi, filosofo e germanista, dirige la Biblioteca Archivio del CSSEO e si occupa soprattutto di storia della Mitteleuropa. In collaborazione con Alessandro Fontanari ha pubblicato diversi studi su Robert Musil. È uno dei curatori dell’opera di riferimento The School of Franz Brentano (Kluwer, 1996). Assieme a Fernando Orlandi si è occupato degli artisti e la Grande Guerra, storicizzando la vicenda dei Kriegsmaler e ha pubblicato diverse opere, tra cui Mitteleuropa. Mito, letteratura, filosofia (Silvy, 2010), “Qualcosa di immane”. L’arte e la Grande Guerra (Silvy, 2012), e curato L’ultimo giornale dell’imperatore, prima edizione mondiale di un corpus di scritti inediti di Robert Musil (Reverdito, 2019).

Costi

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